AMAZON: UN CASO EMBLEMATICO

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di Daniele Proietti

Il capitalismo finanziario apolide domina ormai da tempo la scena mondiale, e, col passare del tempo, la sua morsa si sta facendo sempre più stretta.
È ormai noto a tutti coloro che non vogliono chiudere gli occhi davanti all’evidenza cosa significhi lavorare nei settori della logistica e affini nell’era della precarietà assoluta, dello smantellamento dei diritti sindacali, del logoramento delle condizioni salariali, dell’aumento dei carichi di lavoro accompagnato dai tagli al personale e dall’aumento della disoccupazione, del sindacalismo addomesticato e neutralizzato a semplice gestore del malcontento nei processi di aggressione frontale da parte di padronato e amministrazioni.
Turni massacranti e ritmi alienanti e pericolosi per la salute; continue pressioni ad uscire al di fuori dell’orario di lavoro ordinario per sopperire ad una organica e voluta carenza di personale per poter aumentare le quote di profitto estratte dal lavoro dei dipendenti; precarietà in crescita che aumenta masse di lavoratori ricattabili a cui è possibile chiedere ogni tipo di prestazione extra e, perché no, illegittima, non retribuita o in nero; controllo pervasivo dei movimenti, dei ritmi, dei minimi errori, del livello di produttività e degli obiettivi senza la minima considerazione delle variabili umane (stanchezza, malattia, genitorialità, distrazione, fatica, etc); pause negate e criminalizzate.
Così, da varie inchieste, emergono dati sconcertanti: turni fino a 55 ore settimanali e fino a 10 ore consecutive; dai 6 ai 9 secondi per imballaggio a disposizione per raggiungere obiettivi di 300 articoli all’ora, non più di 30 secondi per l’impacchettamento; lavorazioni a cottimo che possono portare il pagamento a 8 centesimi a “pezzo”; ritorsioni, sanzioni disciplinari e mobbing contro chi non garantisce piena disponibilità ad ogni tipo di pressione o richiesta.

A documentare questi dati sono le testate giornalistiche più importanti, alcune sicuramente interessate a colpire un concorrente dei propri finanziatori, semplicemente perché questi ultimi vorrebbero poter accedere e raggiungere lo stesso livello di aggressione, temendo però l’eccessiva spudoratezza del nuovo magnate del settore. Le inchieste perciò arrivano dal New York Times, dal Mirror, dal Guardian, da Linkiesta, da La Stampa, dall’Espresso, etc.

L’altro dato, non meno importante, riguarda le relazioni sindacali. L’azienda regolarmente rifiuta, nega o rimanda gli incontri con i sindacati, anche i concertativi ed “affidabili” CGIL-CISL-UIL, tentando di delegittimare lo strumento della contrattazione collettiva e del confronto con i lavoratori in quanto classe, ricercando il diretto contatto e “dialogo” con il singolo lavoratore, per “accoglierne” le esigenze riconducendole e correggendole entro la logica aziendale, per farlo ragionare su quanto i disegni siano più grandi e di come la grande famiglia possa sopravvivere solo con i sacrifici e gli sforzi di tutti. Poco importa se questi “sforzi” ricadano esclusivamente su lavoratori da 1.000 euro netti al mese, e i benefici si concentrano tutti nel patrimonio di Jeff Bezos, che si stima tra i 105 (stima Bloomberg) e i 125 (Stima Forbes) miliardi di dollari.

Tutto ciò non costituisce nulla di nuovo, e non è nemmeno patrimonio esclusivo di Amazon e del patron Jeff Bezos, che su questo impero di sfruttamento all’avanguardia si è costruito il patrimonio e la ricchezza che lo ha portato al primo posto nella classifica degli uomini più ricchi del mondo. Condizioni e tendenze simili, in alcuni casi anche peggiori, sono registrabili in tutte le aziende di logistica in cui la giungla delle cooperative rende il tutto anche più intricato, e continuamente spinto oltre ogni parvenza di distinzione tra legalità e illegalità, con vere e proprie truffe ai danni dei lavoratori e della previdenza pubblica. È così quindi in TNT, DHL, BRT, SDA, FedEx, FERCAM, etc. Lo sta diventando anche nella più grande azienda italiana, al momento ancora sotto controllo pubblico, il Gruppo Poste Italiane (proprietario al 100%, peraltro, di SDA).

Ora sconcerta l’ultima grande invenzione e brevetto che in casa Amazon vogliono far proprio: il braccialetto per il controllo dei movimenti, dei ritmi e delle azioni del dipendente. Un braccialetto che possa inviare anche vibrazioni e messaggi al lavoratore non appena questi commetta un errore o faccia qualcosa di non permesso dall’azienda. Insomma, si passa dal lavoro schiavizzato al lavoro del controllo pervasivo e totalitario. La robotizzazione dell’essere umano trasformato in un carcerato controllato sul lavoro e, perché no, attraverso social e tecnologie nel privato (non sono rari i casi di regolamenti interni aziendali in cui si avvertono i dipendenti di sanzioni in caso di diffusione di informazioni o commenti che possano danneggiare l’immagine dell’azienda sui social – per cui non solo non è possibile scioperare e sindacalizzarsi, ma addirittura nemmeno lamentarsi delle condizioni di lavoro).

L’ipocrisia peggiore si registra nel coro dei vari esponenti dei partiti di sistema , nella maggior parte dei casi gli stessi che si sono fatti promotori e sostenitori di politiche e decreti sul lavoro che hanno incentivato e permesso tutto questo, dando mano libera e carta bianca alla costante tendenza del mercato e dei capitali a schiacciare e schiavizzare il mondo del lavoro per poter estrarre quote sempre maggiori di profitto e sfruttamento. A partire dagli esponenti del Partito Democratico, il cui Jobs Act, assieme al decreto Poletti, ha aperto anni fa alla totale precarizzazione del lavoro trasformando in precario anche il contratto a tempo indeterminato grazie alle “tutele crescenti”, ha cancellato la possibilità di vedere un reintegro in caso di licenziamenti illegittimi con la cancellazione dell’art. 18, e ha allargato la platea di giustificazioni aziendali con cui coprire tagli e licenziamenti, prima illegittimi, rendendo quasi incontestabili legalmente gli esuberi di massa e lo scarico sui lavoratori dei rischi aziendali. Infine, proprio il Jobs Act ha aperto alla possibilità per le aziende di controllare il lavoratore a 360 gradi, dagli spostamenti alle comunicazioni private.
Non per nulla già un primo sciopero su questo tema si registrò il 24 marzo 2015 in Fincantieri, sciopero che coinvolse i cantieri di Muggiano (La Spezia), di Riva Trigoso e di Sestri Ponente, perché l’azienda voleva installare dei microchip negli scarponi dei lavoratori per controllarne spostamenti e ritmi.

Non solo. I governi, con il consenso bipartisan, hanno neutralizzato legalmente, con la colpevole complicità degli stessi, il ruolo dei sindacati, relegandoli a semplice sottoscrittore delle scelte dei grandi capitalisti, accolti ai tavoli di trattativa solo se accetta la condizione di ricoprire il ruolo ritagliato nel teatrino delle trattative per smussare alcuni angoli, permettere qualche sfogo illusorio ai propri iscritti con qualche ora di sciopero isolata e portare a compimento i progetti aziendali e governativi. Tutte le ( poche) sigle che non stanno a questa logica saranno escluse a priori dai salotti delle chiacchiere concertative. Tutti i lavoratori che esprimono risentimento e conflittualità, che possono mettere in discussione questo copione, devono essere prima di tutto ricondotti a ragione dai sindacati e, se questo non bastasse, isolati, sanzionati o lasciati a casa.
In una situazione come questa è la battaglia nazionale, sociale, che ha tra i suoi punti cardine il corporativismo e la socializzazione delle imprese, quella da intraprendere e sostenere, in quanto l’edificazione dello stato organico ha dimostrato di essere, nella storia, l’unica via per conseguire il benessere dei popoli.

 

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